TUTELA DEL COPYRIGHT E DEI BENI CULTURALI NELLA PUBBLICITÀ
Sarà capitato a tutti di canticchiare un motivetto orecchiabile ascoltato in uno spot in TV, di rimanere sorpresi e divertiti dall’immagine di un famosissimo quadro modificata ironicamente in un cartellone pubblicitario, oppure di vedere sfilare macchine sportive e lussuose tra i celebri monumenti di una città italiana vuota in un’ad di YouTube, prima di saltare l’annuncio e potersi finalmente godere il tutorial che si voleva guardare.
Da semplici fruitori, però, spesso siamo inconsapevoli degli aspetti legali che regolano l’utilizzo di musiche, opere d’arte e beni culturali nelle pubblicità.
Tutti i retroscena di queste regolamentazioni, corredati da esempi pratici, sono stati analizzati da due avvocati durante l’evento ARTvertising, tenutosi lo scorso 12 ottobre alla Casa del Jazz a Roma, organizzato da IAA Italy Chapter in collaborazione con Fondazione Musica per Roma e lo studio legale Bird & Bird.
Per la seconda tavola rotonda dell’incontro sono intervenuti Arturo Leone, avvocato in Intellectual Property Of Counsel dello studio Bird & Bird (sponsor dell’evento) e delegato IAA Italy Chapter e Eugenio D'Andrea, avvocato esperto nel settore del diritto d'autore.
La conversazione è stata moderata da Cristiano Cominotto, avvocato, giornalista e consigliere IAA Italy Chapter.
Esiste una linea di demarcazione tra attività artistica e pubblicitaria?
Arturo Leone: In effetti, come abbiamo visto durante la prima tavola rotonda, il confine diventa sempre più labile per un rapporto osmotico e sinergico che si è sviluppato nel corso degli anni tra questi due plessi creativi. Bisogna dire che lo stesso fenomeno di osmosi, pur partendo da origini diverse, si realizza anche sotto il profilo giuridico.
Esiste, però, una demarcazione ontologica: l’arte è la libera espressione del pensiero, mentre la pubblicità è un’attività d'impresa destinata alla promozione di beni di consumo.
In ogni caso la creatività, sia quella di carattere strettamente artistico che quella di carattere pubblicitario, trova il suo momento di tutela e il suo presidio nel diritto d’autore, un punto di contatto tra questi due mondi.
Nella pubblicità, infatti, è immanente l’impatto del diritto d’autore, sia a livello di utilizzo di diritti patrimoniali sia per quanto riguarda il rispetto del diritto morale, che concretamente consiste nel rispettare l’opera d’arte utilizzata, così come l’identità artistica dell’autore, senza svilirla.
Per quanto riguarda gli utilizzi, possiamo distinguere due ipotesi. Nella prima, l’opera pubblicitaria realizzata su commissione, non si pongono problemi relativi all’acquisto del diritto di riproduzione, perché questo si trasferisce direttamente al committente attraverso il contratto tra le parti.
Altrimenti, nel caso in cui l’agenzia pubblicitaria voglia utilizzare un’opera già esistente, c’è bisogno di stipulare una licenza d’uso.
Questo è sicuramente un momento di grande attenzione per chi gestisce l’acquisizione del diritto. La ricostruzione della catena dei diritti non è semplice, perché anche rivolgersi a una fondazione non garantisce completamente l’acquisto del diritto in maniera legale.
Alcuni soggetti, infatti, potrebbero avere la disponibilità fisica di una collezione ma non il diritto di disporre dei diritti patrimoniali e men che mai dello sfruttamento pubblicitario. Sotto questo aspetto, l’investitore è chiamato a condurre una due diligence molto accurata.
Altrettanto importante è prevedere gli utilizzi: acquistare i diritti di riproduzione di un’opera non significa poterla riconvertire per mezzi diversi da quelli previsti contrattualmente.
Per esempio, acquistare una foto per farne una pubblicità affissionale non implica necessariamente il diritto di riprodurla in formato digitale o trasformarla in bianco e nero.
In quel caso, bisogna intervenire in modo chirurgico sulla licenza in forma scritta, prevedendo un’ulteriore negoziazione per definire tutti gli utilizzi che sono consentiti.
Il quadro potrebbe non essere altrettanto chiaro per quanto riguarda l’utilizzo pubblicitario dei beni culturali. I beni culturali esistono da secoli, sono di dominio pubblico e sono gestiti da enti territoriali e istituzioni culturali.
Sono espressamente regolati dal Codice dei Beni Culturali e per la loro riproduzione esistono norme ben specifiche che impongono un’autorizzazione da parte dell’ente che ne ha la detenzione, e il pagamento dei canoni. Essendo beni esposti alla pubblica vista, ci si potrebbe chiedere: perché non si possono utilizzare senza licenza nei messaggi pubblicitari?
Perché il Codice dei Beni Culturali prevede che l'ente gestore del bene sia l’unico detentore del suo diritto di riproduzione. Naturalmente, si tratta solo di una tutela di tipo amministrativo, in quanto la maggior parte dei beni culturali sono antichissimi e iI diritto d'autore decade dopo solo 70 anni dalla morte dell'autore.
Il primo è un caso deciso dal Tribunale di Firenze in cui un’agenzia pubblicitaria aveva utilizzato l’immagine del David di Michelangelo, custodito nella Galleria dell’Accademia di Firenze, per farne una campagna apponendo l’immagine su alcuni biglietti.
La particolarità del caso consiste nel fatto che si trattava di un bene esposto al pubblico, ma bisognava entrare nella Galleria per poterlo fotografare. Il Tribunale ha quindi emesso un ordine inibitorio cautelare, ordinando la cessazione della campagna.
Cosa si intende esattamente per beni culturali e quali sono i limiti ontologici della loro definizione?
Arturo Leone: L’articolo 10 del Codice dei Beni Culturali ne fornisce una definizione molto ampia e un elenco variegato: si tratta di beni mobili e immobili appartenenti al patrimonio pubblico e/o a persone giuridiche private senza scopo di lucro che “presentano interesse artistico, storico, archeologico ed etnoantropologico.” Per essere dichiarato di interesse culturale, il bene deve essere sottoposto a un procedimento di verifica.
Questo implica che oltre ai monumenti, possono essere annoverati tra i beni culturali anche le raccolte nelle gallerie e nelle pinacoteche, le opere d’arte e perfino le piazze e le vie che hanno interesse di carattere storico. Con questa elencazione bisogna calibrare bene la comunicazione.
A questo proposito, si può citare un secondo caso.
Il Tribunale di Palermo ha censurato su istanza dell’ente che gestisce il Teatro Massimo una campagna commissionata da una banca in cui compariva il Teatro, un bene esposto a pubblica vista. La motivazione è stata che occupava una posizione centrale nella comunicazione, non era un elemento di contorno.
Nella mia esperienza, considerando che anche le opere architettoniche sono protette dal diritto d’autore, qualora si dovesse confezionare un messaggio che riproduce un’opera del genere, raccomando di richiedere l’autorizzazione da parte del progettista.
Questi pochi precedenti giurisprudenziali dimostrano che il Codice dei Beni Culturali è applicato in modo molto rigoroso quando l’ente si impegna a tutelare e difendere il proprio asset.
L'opera d'arte in pubblicità è sintomo di creatività o produce messaggi svilenti?
Arturo Leone: Ci sono stati casi di veri e propri abusi e stupri delle opere d’arte in pubblicità, come la Torre di Pisa utilizzata da un’azienda cinese nel 2008 per una pubblicità esplicita sul Viagra.
In questi casi, c’è il rischio che il titolare dei diritti sull’opera possa avanzare una domanda di risarcimento dei danni, sempre che riesca a provarli.
Un caso di abuso pubblicitario sanzionato dal Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria sotto un profilo particolare è quello della Madonna del Porto, utilizzata per la pubblicità di un digestivo.
La sua immagine era stata manipolata digitalmente incidendo sul corpo della Vergine e quindi le autorità giudiziarie sono intervenute perché quel tipo di rappresentazione, considerata addirittura screditante della pubblicità, poteva urtare la sensibilità di chi avesse determinate convinzioni religiose.
In Italia non esiste il diritto alla libera riproducibilità dei beni esposti a pubblica vista, mentre in altri paesi europei è concepita la libertà di panorama. In Germania e in Spagna esiste, per esempio, anche se con alcune restrizioni.
Questo porta ad alcune conseguenze, come per un caso di cui si è occupato recentemente il Tribunale di Roma. Si trattava di un’installazione che è stata esposta al Circo Massimo, la cui immagine è stata utilizzata per la campagna pubblicitaria di una compagnia aerea.
L’artista aveva intentato la causa per violazione del diritto d’autore perché una cosa è far fruire il pubblico dell’opera visiva, un’altra cosa è l’utilizzo pubblicitario. Il caso si è concluso con una condanna a un risarcimento del danno contenuta, di 15.000 euro.
Anche le opere di street art, per definizione messe a disposizione del pubblico, pongono degli interrogativi: si tratta di atti vandalici o di opere d’arte? Chi ha il diritto dell’opera di street art? Il proprietario della superficie o l’artista? Per acquisire i diritti di riproduzione ci si deve rivolgere al proprietario del muro?
Nella casistica nazionale e internazionale la risposta è che, a prescindere da chi sia il proprietario, le opere di street art devono essere autorizzate per la riproduzione pubblicitaria da parte dell’artista.
All’estero la Volkswagen è andata incontro a un risarcimento del danno per violazione del copyright di un artista pari a 230.000 euro, per aver utilizzato abusivamente una sua installazione dedicata all’immigrazione.
Nella tua esperienza, in Italia i risarcimenti riconosciuti nel caso di riproduzione illegale delle opere d’arte sono più bassi che negli altri paesi Europei, o rispetto agli Stati Uniti?
Arturo Leone: Sì e non è un caso. Infatti, la questione è legata al sistema di civil law che vige in Italia, secondo il quale la quantificazione del danno è basata su prove inconfutabili e quantitative, cioè l’entità del risarcimento corrisponde esattamente alla somma necessaria per riparare al danno subito.
Questo non sussiste nei paesi di common law, come gli Stati Uniti, dove il giudice, avendo accesso all’Istituto dei Danni Punitivi può svolgere un’azione deterrente nei confronti di illeciti che possono ripetersi nel tempo, stabilendo l’entità del risarcimento sulla base della colpa che attribuisce al danneggiante.
Bisogna dire che la nostra giurisprudenza ha fatto dei passi in avanti. Ad oggi, quando si viola il diritto d’autore si usa un’espressione latina, cioè che il danno è in re ipsa. Questo significa che il fatto che il danno esista non va neanche più provato e si tratta solo di quantificarlo. Questo è un passo in avanti, perché la Cassazione lo prevede solo da un decennio, relativamente da poco tempo, quindi.
Diritti di proprietà musicali e rapporti con le agenzie pubblicitarie
Eugenio D’Andrea: Io mi occupo di gestire il rapporto tra le agenzie pubblicitarie e i titolari dei diritti sulle musiche. È un tema fondamentale perché senza musica la pubblicità non potrebbe esistere.
Come per le arti figurative, il problema del diritto d’autore non si pone se le musiche vengono commissionate appositamente per una pubblicità, il problema invece si deve affrontare e risolvere tutte le volte in cui si attinge ad un catalogo musicale già esistente.
Per noi operatori del diritto le sincronizzazioni musicali sono alquanto complesse da affrontare. La difficoltà consiste nell’individuare quando l’accoppiamento della musica con le immagini costituisce sincronizzazione e quando no. Per esempio, non sempre è chiaro quando l’inclusione di un estratto di un concerto in un film possa costituire una sincronizzazione.
Questo è un tema dirimente perché la fruizione della musica è gestita dalle società di collecting, che, in virtù di un permesso generale, concedono i consensi senza dover passare per i titolari.
È un panorama complesso. Per esempio, l’utilizzo di musica per un promo di un programma televisivo d’intrattenimento non sempre viene trattato come una sincronizzazione, per cui non è detto che ci sia bisogno di chiedere l’autorizzazione da parte degli aventi diritto ma può essere sufficiente il permesso generale (fatto sempre salvo il diritto morale).
Nel mondo del cinema, invece, oltre a dover pagare i diritti di sincronizzazione agli aventi diritto, c’è anche la corresponsione del diritto d’autore da parte delle società di collecting, basato su una quota dei profitti derivati dalla vendita dei biglietti.
Sicuramente l’utilizzo di musica in uno spot pubblicitario è sempre considerato un diritto da acquisire dai titolari delle musiche in via privata e diretta tramite un contratto di licenza.
In questo caso, sono due i maggiori interlocutori a cui ci si rivolge per chiedere i consensi: l’editore musicale, per quanto riguarda l’opera immateriale, e quindi di conseguenza gli autori e i compositori e il discografico, per quanto riguarda la parte dell’interpretazione, e quindi a caduta il cantante.
Nel settore pubblicitario le società di collecting non possono amministrare il diritto e ci sono delle motivazioni che riguardano il diritto morale: l’utilizzo di musica in uno spot è un utilizzo sensibile, per cui deve passare per dei consensi. In più, dal momento che i diritti non vengono ripartiti dalla società di collecting c’è bisogno di negoziare economicamente il rapporto.
Nell’ambito discografico, con l'evoluzione del digitale si è guardato ad altre forme di economia: più che concentrarsi sulle percentuali sulle vendite dei dischi, ci si è focalizzati su altri tipi di guadagno, come la monetizzazione dei contenuti video e l’utilizzo della musica in pubblicità.
Quando si chiede l’autorizzazione dell’uso di un brano per fini pubblicitari, immediatamente dopo l’editore deve interfacciarsi con gli autori e i compositori e il discografico con il cantante per chiudere l’accordo.
In realtà, quello che si disciplina nel rapporto sottostante è una ripartizione percentuale del compenso che si andrà a richiedere e poi c’è la questione dell’autorizzazione sotto il profilo del diritto morale. Quando si richiede musica per una pubblicità, gli aventi diritto originari, i creatori di quel brano per il conto dei quali trattano l’editore e il discografico, devono accettare la proposta economica.
Su questa decisione giocano una serie di variabili tra cui il tipo di utilizzo, la durata dell’estratto del brano richiesto, il numero di canali su cui si svilupperà la campagna, ma soprattutto i valori che la pubblicità veicola e se questi sono in linea con i propri.
I discografici cercano sempre di inserire nei contratti una clausola che personalmente ritengo poco utile: il consenso a cedere il diritto d’autore non può essere negato se non per ragionevoli motivi. Di fatto il consenso viene richiesto sempre perché nell’utilizzo pubblicitario il ragionevole motivo da parte di un artista o di un autore può sussistere sempre, in quanto c’è in ballo la sua reputazione e la sua immagine.
Quanto sopra vale ovviamente per autori e compositori ma anche per l’interprete poichè, seppure l’artista non ha scritto l'opera, il suo timbro di voce viene riconosciuto e i valori trasmessi dalla pubblicità vengono identificati con i suoi: è come se fosse un testimonial del brand, anche se non in video.
Dal momento che la pubblicità ha tempi veloci, le trattative tra discografico e artista o tra editore e autore devono durare poco. Infatti, mentre per dare il consenso per un film si può impiegare un tempo maggiore, per le pubblicità gli artisti devono dare una risposta in tempi agevoli e rapidi.
Per rendere il discografico marginale nelle trattative si può ricorrere alle cover, in quanto si cambia l’interprete scelto, ma non si può prescindere dai titolari delle opere immateriali per cui l’editore, e quindi a caduta gli autori e i compositori rimangono sempre interlocutori centrali.
Posso citare due esempi di contenzioso non italiani ma piuttosto emblematici in cui il diritto d’autore è stato in qualche modo violato e gli artisti hanno fatto ricorso e vinto le cause.
Tom Waits aveva negato l’utilizzo della sua musica per la pubblicità di Audi. Allora l’azienda utilizzò un brano con uno stile molto simile a quello di Waits e lo fece interpretare a un cantante con una pasta di voce affine. L’artista vinse la causa dopo aver fatto ricorso perché questa somiglianza nel timbro induceva il pubblico a pensare che la canzone fosse sua, con l’elevato rischio che lo si associasse ad Audi contro la sua volontà.
Eminem invece ha fatto causa alla Apple. Nello spot un ragazzino ascoltava con un iPod un brano di Eminem e lo canticchiava. Anche se non si sentiva chiaramente, la canzone utilizzata era riconoscibile e al rapper non era stato chiesto nemmeno il consenso.
Sei stato e sei l’avvocato di molte star, da Bocelli a Lucio Dalla, da Fiorello ai Måneskin. Personalmente, quant’è difficile gestire il rapporto con questi artisti? Ti è mai capitato un conflitto di interessi in quest’ambiente?
Eugenio D’Andrea: È difficile perché nel mio settore la figura dell’avvocato non si occupa solo della gestione delle trattative economiche ma anche dell’interlocuzione di tipo psicologico con l’artista. Di solito si instaura un rapporto duraturo nel tempo perché è nella natura degli artisti scegliere un avvocato di fiducia. La difficoltà del rapporto sta nel tenere conto di questi aspetti, oltre che di quelli tecnici.
Partiamo dal presupposto che gli artisti sono più legati alle questioni economiche, valoriali e relazionali ma poco interessati a quelle giuridiche, perciò non è semplice discutere di queste con loro nel momento della negoziazione, anche se poi in caso di problemi la responsabilità ricade sull’avvocato.
Il conflitto d’interesse c’è perché c’è forte gelosia. Bisogna fare attenzione perché se c’è un artista di un settore che si è affidato a te, devi capire che se assisti anche il suo principale competitor del medesimo settore, al 90% l’artista si rivolgerà a un altro avvocato.
L’utilizzo di opere d’arte in pubblicità, in qualsiasi loro forma espressiva, impreziosisce e nobilita il messaggio rendendolo più memorabile, emozionante e significativo per i fruitori. È importante, però, che i pubblicitari rispettino e non dimentichino i diritti di chi ha creato quelle opere d’arte con la propria passione e il proprio talento.
Leggi di più sulle forme della creatività: arte e pubblicità a confronto.
Articolo scritto da Camilla Montalto